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Stiamo Freschi 2 – Andrea si è perso


Pubblicato il 22 Febbraio 2024

Andrea s’è perso, e non sa tornare…

Noi siamo insegnanti, e il nostro lavoro, oltre a quello descritto dal participio presente che ci definisce, è anche quello di raccogliere storie, di viverle con i nostri studenti, di portarle con noi nel nostro lavoro e nella nostra vita. A volte queste storie sono belle, addirittura edificanti, piccole storie di difficoltà superate, o di situazioni critiche affrontate con coraggio e determinazione, storie di riscatto e di successo. La storia di Andrea è brutta, senza lieto fine, e anzi con un finale drammatico. Però è attraversata da una lama di luce che qualcuno ha avuto la fortuna di vedere per e con lui. E’ per questa ragione che la storia di Andrea non deve andare persa.

Andrea è (era) uno dei detenuti della Casa Circondariale di Varese che hanno partecipato al corso di modellazione e scultura che lo scultore Ignazio Campagna ha tenuto l’anno scorso, portato dai volontari dell’Auser. I lavori prodotti sono stati esposti presso la biblioteca dell’Istituto Comprensivo “Anna Frank” di Varese, e diverse opere di Andrea sono state selezionate. Addirittura suo è il logo della mostra. Andrea era detenuto a Varese per scontare una pena non troppo lunga, che era quasi giunta al termine. Era stato condannato per violenze domestiche, in una vita che con lui era stata violenta in tanti modi e per tanto tempo Ma non aveva spento in lui quella luce che gli permetteva di vedere il bello. Era giovane, poco più che trentenne, e avrebbe dovuto scontare ancora pochi mesi presso una comunità di accoglienza. Per questo era stato trasferito alla Casa Circondariale di Busto Arsizio, da dove poi sarebbe stato inviato in Comunità. Ma Andrea ha in bocca un dolore, la perla più scura.

Quel giorno un altro detenuto era morto, per cause naturali. Sì, succede anche questo, come in tutte le comunità umane. Nell’immaginabile scompiglio che questo evento infausto deve avere causato, nell’agitazione generale, nella cronica mancanza di personale che affligge i nostri istituti di reclusione e di pena, nessuno si è accorto di Andrea. Il secchio gli disse “Signore, il pozzo è profondo, più fondo del fondo degli occhi della notte e del pianto.” Lui disse: “mi basta che sia più profondo di me”.

Alfonsa Gucciardo – Cpia 2 Varese

 

No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main. If a clod be washed away by the sea, Europe is the less, as well as if a promontory were, as well as if a manor of thy friend’s or of thine own were: any man’s death diminishes me, because I am involved in mankind, and therefore never send to know for whom the bell tolls; it tolls for thee. 

(John Donne, Med. XVII)

 

L’Italia è un Paese dove, in generale, ci si suicida poco. Il tasso di suicidi tra la popolazione libera è stata, secondo i dati ISTAT del 2018, del 6,3 per 100.000 abitanti, ed è in discesa nell’ultimo triennio. Lo stesso tasso è 20 volte superiore nella popolazione in carcere. Il dato è impressionante. Secondo l’OMS l’Italia è il Paese europeo con la maggiore distanza fra l’incidenza del suicidio fra le persone libere rispetto a quelle incarcerate, tanto che i suicidi costituiscono un terzo del totale delle morti in carcere. Se prendiamo a paragone la Spagna, che ha un tasso di suicidi fra la popolazione libera di poco superiore a quello dell’Italia, il rapporto con il tasso di suicidi fra la popolazione in carcere e la popolazione libera è in rapporto di 5 a 1. I suicidi sono aumentati, come numero assoluto, nel biennio della pandemia, com’è facile comprendere, anche a causa dell’isolamento ulteriore: tutti i contatti con l’esterno sono stati eliminati, e non sempre i colloqui con i familiari sono stati sostituiti dalle videochiamate. La situazione di deprivazione sociale e affettiva, già insita nella condizione di ristretto, si è ulteriormente aggravata.

Ai dati sui suicidi in carcere occorre poi aggiungere i dati, altrettanto impressionanti, sui tentati suicidi e sugli atti di autolesionismo.

Classificati come “eventi critici”, gli atti di autolesionismo sono in netto aumento, essendo passati dal 17,8% di tutti gli eventi critici del 2016 al 24,3% del 2022. Gli atti di autolesionismo, in particolare, vengono messi in atto nel 60% dei casi dalle persone straniere in carcere.

Infine, se consultiamo la “pagella” che l’agenzia SPACE I dà all’Italia, vediamo che il tasso di detenuti per 100.000 abitanti risulta “BASSO”. Nonostante questo, sappiamo che il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane è del 118%, e in Lombardia è del 138% (dati al 31 marzo 2023). Coerentemente, SPACE valuta come “ALTA” la densità di popolazione; il tasso di detenuti di origine straniera è “MOLTO ALTA”, cioè superiore di più del 25% rispetto alla media europea; “ALTI” sono anche i dati che riguardano i detenuti in attesa di giudizio e il tasso di suicidi. Il rapporto fra detenuti e agenti è invece “MEDIO”.

I suicidi avvengono più spesso fra coloro che entrano per la prima volta in carcere, e, curiosamente, fra coloro che più sono prossimi al termine della condanna. Per questi ultimi gioca probabilmente il disorientamento di una vita da ricominciare daccapo, l’incertezza degli affetti e della situazione che dovranno affrontare una volta usciti dal carcere. Secondo l’OMS in carcere si concentrano gruppi di popolazione particolarmente vulnerabili al suicido, a causa delle condizioni svantaggiate dal punto di vista economico, sociale, educativo e di salute.

Fra le condizioni più pericolose si possono indicare fra le altre: la depressione, diffusa fra i ristretti; i tentativi di suicidio sono puniti con l’isolamento nella cosiddetta “cella liscia”, cioè una cella priva di arredi, a parte una brandina. Non è certo la condizione migliore in cui porre una persona che soffre per il contesto in cui si trova; il trauma di ingresso, a cui ora si cerca di porre un argine con una procedura di accoglienza nei confronti dei nuovi arrivi;  alcuni fattori psicosociali: tra i detenuti suicidi sono abbastanza comuni l’inconsistenza del supporto familiare e sociale. L’isolamento sociale è un fattore di rischio per il suicidio; infine, i fattori di istituzionalizzazione: oltre alla “spoliazione identitaria” del soggetto, quale effetto del processo di istituzionalizzazione, la totale dipendenza da altri per ogni aspetto della vita quotidiana, porta alla “infantilizzazione” della persona reclusa. Fattori di stress come la vita quotidiana con tutte le sue limitazioni, o il trauma dell’ingresso, possono risultare fatali.

Del resto, chiunque abbia insegnato in carcere sa bene  quanto siano preziosi per i detenuti i piccoli oggetti di cancelleria o per l’igiene personale: per ottenerli in carcere occorre una procedura lunga. Una persona che insegna in carcere sa come in certi giorni sia impossibile fare qualunque attività scolastica: si può solo ascoltare e cercare di mettere in pratica l’empatia. Basta un colloquio teso con un familiare, una notizia non buona portata dal difensore, l’attesa per l’udienza imminente, e la lezione diventa del tutto marginale. Attenzione, però: in questa condizioni diventa al contrario centrale l’attenzione della persona “esterna”, docente o volontario che sia, che diventa il depositario delle confidenze, delle attese, dei desideri e delle speranze dell’interlocutore carcerato. La responsabilità del docente o del volontario è grande, in tutti questi casi, anche perché la sua valutazione, del tutto empatica e non scientifica, dello stato di stress dell’interlocutore può essere un importante indicatore per chi all’interno del carcere si occupa della salute dei ristretti.

Non dimentichiamo, inoltre, che al 31 marzo 2023 risultavano presenti in Lombardia 30 detenuti con tipologie psichiatriche. Di questi 13 erano in attesa di ricovero presso REMS, per patologie diagnosticate o sviluppate dopo l’ingresso in carcere.

E allora?

Se dobbiamo dare retta all’OMS e ai dati disponibili, il forte tasso di suicidi in carcere non è un problema del carcere. O meglio, si iscrive perfettamente in quel processo di emarginazione delle persone fragili e di estremizzazione delle differenze sociali e culturali in atto ormai da tempo nella nostra società, e, a quanto pare, con maggiore evidenza in Italia che altrove.  In questo contesto, può assumere grande importanza il ruolo dei CPIA non tanto e non solo con i corsi istituzionali e di ampliamento che ci competono e che dovrebbero andare almeno in parte a colmare il divario nelle opportunità educative, e  garantire e riconoscere le competenze  già presenti, ma soprattutto con le sue reti. I CPIA intesi come reti potrebbero intervenire nei momenti critici soprattutto della riqualificazione,  del sostegno e dell’orientamento verso un lavoro dignitoso, in collaborazione con le istituzioni locali e con le associazioni del terzo settore.

 

Sitografia