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ISTRUZIONE PENITENZIARIA SPECIALE

Chiamami con il mio nome – i 50 anni della riforma carceraria

Pubblicato il 9 Ottobre 2025

Fino al 1975 i condannati non avevano un nome, né potevano indossare abiti civili. Ai loro figli, se minorenni di diciotto anni, non era consentito visitarli in carcere: così stabiliva il Regio Decreto del 18 giugno 1931, n. 787 – Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena – firmato da Vittorio Emanuele III, Benito Mussolini e dal guardasigilli Alfredo Rocco. Si trattava di un regolamento minuzioso, composto da 332 articoli, corredato da tabelle che indicavano con precisione le grammature del vitto da somministrare ai detenuti secondo lo stato di salute: “sano”, “minorato”, “affetto da tubercolosi” e così via. Il comportamento dei ristretti, che fossero in attesa di giudizio o condannati in via definitiva, era descritto nei minimi particolari: dall’obbligo di assistere alle funzioni religiose cattoliche al modo in cui ci si doveva rivolgere alle guardie. Ai secondini e alle “autorità” si parlava dando del “lei”, in segno di rispetto; ma per richiamare un detenuto bastava un “voi”, ben più ruvido e impersonale. Il lavoro era obbligatorio e retribuito, mentre le infrazioni venivano punite con la dieta a pane e acqua e la notte trascorsa sul tavolaccio.

Eravamo ben lontani dall’articolo 27 della Costituzione, che sancisce come “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Bisogna attendere il luglio 1975 perché si scriva, per la prima volta, che “i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome”. Quell’anno – il 1975 –  fu un tempo di grandi mutamenti e di forte impulso riformatore. A marzo la legge n. 39 aveva anticipato la maggiore età da ventuno a diciotto anni; a maggio la riforma del diritto di famiglia sanciva la parità tra i coniugi, la potestà genitoriale (non più “patria potestà”) e i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio.

In luglio, infine, venne pubblicata la legge n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, il cui decreto attuativo sarebbe stato emanato l’anno successivo. Non si trattava più di un semplice regolamento che lasciava ampia discrezionalità a chi dirigeva gli “stabilimenti penali”, ma di una legge vera e propria, che per la prima volta limitava in modo sostanziale il potere dell’amministrazione carceraria. Fin dall’articolo 1 si stabiliva che le persone detenute non dovessero essere private della loro identità e che venissero chiamate per nome. Il trattamento, inoltre, doveva tendere alla rieducazione del condannato anche attraverso i contatti con l’esterno. Le porte si aprivano simbolicamente: interno ed esterno cominciavano a comunicare.

Da questa riforma possiamo ricavare almeno tre salti qualitativi che ancora oggi ne definiscono la portata storica e civile della legge:

Il primo riguarda la centralità della persona detenuta. L’articolo 1 della legge 354/1975 afferma che il trattamento deve essere “conforme ad umanità” e “assicurare il rispetto della dignità della persona”, prevedendo che i detenuti siano “chiamati o indicati con il loro nome” e che il percorso penitenziario si ispiri a un principio rieducativo anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno. È la fine del numero di matricola e l’inizio del riconoscimento dell’identità: non più un soggetto da controllare, ma una persona con una biografia e una possibilità di rinascita.

Il secondo salto è l’individualizzazione del trattamento, un principio che segna la rottura definitiva con l’uniformità punitiva del passato. Ogni percorso deve essere calibrato sulle caratteristiche del condannato, tenendo conto delle sue attitudini, capacità e bisogni. L’articolo 15 elenca gli elementi concreti del trattamento: istruzione, formazione professionale, lavoro, attività culturali, ricreative e sportive, esercizio della religione, contatti con la famiglia e con la società civile. In questa cornice, il detenuto diventa il centro del sistema, non più oggetto passivo ma soggetto attivo del proprio cambiamento.

Il terzo salto qualitativo è l’apertura del carcere al territorio, attraverso la collaborazione dell’Amministrazione Penitenziaria con enti locali, associazioni, scuole, università, parrocchie e istituzioni culturali. La rieducazione, infatti, non è più confinata entro le mura dell’istituto, ma si alimenta del dialogo con la comunità esterna. L’articolo 28 della legge prevede la partecipazione di soggetti pubblici e privati alle attività educative, lavorative e culturali dei detenuti, ponendo le basi per una nuova visione: il carcere come parte integrante della società, non come suo scarto o confine.

Questa prospettiva, già allora rivoluzionaria, anticipava la moderna concezione di giustizia riparativa. L’idea che la pena possa diventare uno spazio di restituzione sociale, di riconciliazione e di costruzione di competenze, non di mera espiazione, trovava qui le sue radici giuridiche.

Non mancarono, tuttavia, le difficoltà di attuazione. Nei decenni successivi, sovraffollamento e carenza di risorse hanno ostacolato la diffusione di buone pratiche: secondo l’associazione Antigone, solo un detenuto su quattro partecipa ad attività formative o culturali. Eppure la legge 354 ha inciso nel profondo del diritto e della coscienza civile, restituendo nome e dignità a chi ne era stato privato.

Col tempo, però, la spinta riformatrice si è affievolita. Già negli anni Ottanta la legge Gozzini del 1986 aveva segnato una svolta ambivalente: da un lato ampliava i percorsi di reinserimento, dall’altro introduceva nuovi dispositivi di controllo, come il regime di sorveglianza particolare (art. 14-bis). Negli anni Novanta, poi, gli articoli 4-bis e 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario hanno consacrato la stagione dell’“involuzione securitaria”, privilegiando la difesa sociale rispetto alla funzione rieducativa. Da allora l’asse culturale dell’esecuzione penale si è spostato: i diritti hanno ceduto terreno alla sicurezza, e il carcere rischia di tornare a essere strumento di paura più che di rinascita.

La giurisprudenza costituzionale ha tentato di arginare queste derive: oltre duecento sentenze dal 1975 a oggi hanno progressivamente ampliato la tutela dei diritti delle persone recluse. Dalla pronuncia n. 26 del 1999, che afferma la necessità di garantire la salute psichica del detenuto, alla n. 99 del 2019, che estende la possibilità dei benefici penitenziari anche a chi non collabora con la giustizia se prova di essersi dissociato dal crimine, la Corte ha costantemente riaffermato un principio: la dignità umana non è sospesa dalla condanna. Tuttavia, questo attivismo giurisprudenziale supplisce a una politica spesso inerte.

Oggi, più che di riforme, il carcere vive di emergenze amministrative: mancanza di personale, disuguaglianze territoriali, frammentazione delle competenze. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà, le morti in carcere nel 2024 hanno superato quota settanta, oltre la metà per suicidio: un dato che parla da sé, mentre la detenzione resta, troppo spesso, una forma di abbandono istituzionale.

La parabola che dal 1975 a oggi descrive il destino della riforma penitenziaria è la parabola di un Paese che fatica a conciliare giustizia e umanità. Si è passati da un carcere aperto al territorio a un carcere sempre più chiuso su se stesso, da una visione educativa a una visione difensiva. Come se, nella paura di ciò che accade dentro, si fosse smarrito il coraggio di guardare fuori. Eppure l’articolo 27 della Costituzione continua a vegliare come una stella polare su questo mare agitato: non chiede indulgenza, ma intelligenza; non chiede clemenza, ma coerenza. Ricorda che la pena non è vendetta dello Stato, ma responsabilità della Repubblica. E che ogni volta che un detenuto perde il proprio nome, anche lo Stato perde un frammento della sua dignità.

L’eredità della riforma di cinquant’anni fa, tuttavia, resta importante. La legge 354 rappresenta una rivoluzione copernicana nella concezione dell’istituto carcerario e nella vita dei detenuti. Il carcere diventa il centro di una rete di servizi volti a favorire la formazione e il reinserimento, mentre i rapporti con l’esterno dovrebbero essere la normalità della vita detentiva. Il “delinquente” non è più un individuo pericoloso da segregare, ma una persona dotata di diritti e doveri, inserita fin da subito in una rete sociale che favorisca lo sviluppo di competenze, mantenga i legami affettivi e valorizzi interessi culturali, sportivi e ricreativi.

Alfonsa Gucciardo  – Cpia Varese 2 e redattrice CRRSS Cpia Lombardia